L’ex attaccante si racconta: dagli inizi con il padre agli infortuni, fino alla partita d’addio al Franchi
Giuseppe Rossi è raffreddato, le figlie gli hanno attaccato un po’ di influenza. In carriera ha segnato 132 gol, 30 le presenze con l’Italia e oltre mille i giorni da infortunato. Oggi ha 38 anni, si è ritirato ma sabato, alle 18, giocherà al Franchi di Firenze la sua partita di addio al calcio. E si è raccontato al Corriere della Sera.
Chi ci sarà?
“Batistuta e Toldo, Toni e Cassano, poi Grosso, De Rossi, Mario Gomez e non solo. Anche due grandi allenatori come Ranieri e Ferguson“
Ferguson?
“Mi ha detto subito di sì. Speriamo non faccia come quella volta a Birmingham…“.
Cioè?
“Quarti di Coppa di Lega, 0-0 dopo il primo tempo. All’intervallo mi sgrida. ‘Devi darti da fare’. Mi sostituisce e dopo 5′ facciamo due gol“.
Come ci finì al Manchester United?
“Un emissario del club si presentò a Parma, avevo 17 anni. Mi chiese di aprire la mano e mi consegnò una spilla con il logo della squadra. Firmai il contratto in un ristorante, con me c’era papà“.
Dopo ogni gol le braccia al cielo. La dedica era per lui?
“Si ammalò nell’inverno del 2009, un tumore. Mamma mi nascose tutto, voleva proteggermi. Ricordo il giorno in cui mi chiamò, crollai a terra. Era inizio febbraio, tornai negli Stati Uniti per salutarlo. Dopo qualche settimana morì. Era il mio eroe“.
Il primo ricordo insieme?
“Lui che torna dal lavoro, sistema i conetti nel giardino della nostra casa di Clifton, nel New Jersey, e io che li dribblo. Tutto quello che sono adesso lo devo a lui“.
Anche la carriera da calciatore?
“A 12 anni lasciai gli Stati Uniti per trasferirmi al Parma. Lui partì con me. Non parlavo bene la lingua, a scuola i ragazzi non erano accoglienti, mi sentivo solo. Piangevo molto, dopo un mese e mezzo venne a trovarci mamma. Ricordo ancora la forza di quell’abbraccio“.
E papà?
“Non volevo fargli vedere le mie difficoltà, ma lui aveva capito tutto. Più avanti mi confessò che aveva tenuto pronte le valigie per un mese e che mi avrebbe voluto bene anche se fossimo tornati in America“.
Dopo la morte di suo padre segna 35 gol col Villarreal.
“Volevo spaccare tutto per realizzare il suo sogno. Guardiola mi voleva al Barcellona, durante la trattativa mi trovavo ad Acquaviva d’Isernia, il paese d’origine di mia mamma. Trecento abitanti, il cellulare non prendeva. Giravo per strada con le braccia al cielo in cerca di una tacca. Poi il Barça non trovò l’accordo e prese Sanchez“.
Fu l’unico treno perso?
“Per la Juventus dovevo essere il post Del Piero. Ero in macchina con mio zio, lui che guidava e io dietro che parlavo al telefono con Marotta e Conte. Offrirono quasi 30 milioni ma il Villarreal era appena tornato in Champions e non se la sentì di cedermi“.
Nel suo momento migliore si rompe il ginocchio per la prima volta.
“Infortuni così ti tolgono un anno e io in carriera ne ho avuti cinque. Il dolore è tanto, come il tempo da trascorrere da soli. Il calcio è un mondo falso. Fino al giorno prima mi volevano tutti, poi più nessuno“.
Oggi gioca la Nazionale. Per lei gioie e dolori.
“Nel 2010 Lippi non mi portò al Mondiale. Avevo giocato sempre, qualificazioni e amichevoli. Dopo la morte di papà restai a casa un mese e mezzo e lui non mi ritenne pronto a livello psicologico. Ma è acqua passata, l’ho invitato alla partita di sabato. E poi Prandelli mi tenne fuori da quello del 2014. Non mi vedeva bene fisicamente, però i test dicevano altro“.
Come ha conosciuto sua moglie Jenna?
“A una festa, grazie a un amico. Avevo 25 anni, mi ero fatto male al ginocchio e giravo con la stampella. ‘Dai, andiamo sulla spiaggia’, mi sollecitò. Zoppicavo, non volevo. Per fortuna alla fine mi ha convinto. L’ho vista lì“.
Di
Redazione LaViola.it