Lo storico ex portiere della Fiorentina e protagonista del primo scudetto viola Giuliano Sarti è stato intervistato dall’Associazione Glorie Viola, intervista che compare sulla pagina Facebook ufficiale dell’associazione. Ecco le sue parole:
La prima domanda è per tutti coloro i quali non hanno avuto la fortuna di vederla giocare: che portiere è stato?
«Ero uno che si faceva sentire dalla mia difesa. I compagni vedevano delle cose, dalla porta io ne vedevo anche altre, e quindi cercavo di guidarli. I miei difensori non erano abituati ad avere qualcuno che dicesse loro cosa fare. Per questo mi chiedo come facciano oggi portieri e difensori a dialogare tra loro: parlano due, tre lingue diverse, la comunicazione non è ottimale. E in certi casi si vede…».
È d’accordo con chi la definisce un innovatore?
«Diciamo che ho dato il via a due novità. La prima è quella che riguarda la posizione: prima di me i portiere non uscivano mai dall’area piccola, io invece stavo anche al limite dell’area. Adesso è una cosa normalissima, ma vi assicuro che prima non era così».
E la seconda?
«L’altra novità riguarda il vestiario: andammo a giocare a Glasgow, c’erano quindici gradi sotto zero, e per coprirmi misi una sorta di calzamaglia. In realtà erano dei mutandoni rosa, ma da lì in poi i portieri cominciarono ad indossarla con sempre maggiore frequenza».
Facciamo un passo indietro e partiamo dall’inizio, il suo arrivo a Firenze…
«La chiamata della Fiorentina per me fu una cosa bellissima, dette una svolta incredibile alla mia vita. Fino a quel momento giocavo in promozione, potete immaginare che balzo in avanti. La mia vita cambiò, così come quella della mia famiglia».
Quando vestì la maglia viola ebbe subito la sensazione di essere arrivato in una grande squadra, che l’anno successivo avrebbe vinto il campionato?
«Assolutamente no! Non ci pensavamo neanche, ci bastava giocare a pallone e stare insieme. Era molto diverso da ora, oggi conta soltanto vincere».
Però ad un certo punto capiste che lo Scudetto poteva finire a Firenze.
«Sì, certo… ma non era facile crederci perché fino ad allora il Tricolore non era mai sceso più giù di Bologna, se si esclude quello vinto dalla Roma ai tempi di Mussolini. Iniziammo a pensarci ma soltanto quando i punti di vantaggio sulle altre furono quattro, cinque. Fino a quel momento giocavamo a calcio, giocavamo bene e ci divertivamo, nient’altro. Eravamo un gruppo davvero molto unito, eravamo amici in campo ma soprattutto fuori, credo fosse quella la nostra forza».
Quale che fosse la vostra forza, vi ha portato molto lontani, addirittura in finale di Coppa dei Campioni.
«Eh sì, l’anno successivo disputammo la finale a Madrid contro il Real. L’atmosfera era pazzesca, c’erano più di centomila spettatori… non avevo mai visto niente di simile. Purtroppo non andò come speravamo. Vi dico subito che non era rigore, ho qui anche i filmati che lo testimoniano…».
A questo proposito, qualche settimana fa Magnini ci ha raccontato che fu quell’episodio a cambiare la gara. Senza quel rigore…
«No, Ardico stavolta sbaglia. Vi assicuro che il Real Madrid era un’altra cosa, era una squadra davvero eccezionale e piena di grandissimi campioni. Credo fossero superiori a noi, probabilmente avrebbero vinto ugualmente».
Adesso facciamo un salto in avanti, nel 1963 passò all’Inter. Quali differenze riscontrò in queste due realtà?
«Premetto che nella mia carriera sono stato sempre bene, ma Fiorentina e Inter erano due cose estremamente diverse: a Firenze eravamo una famiglia, a Milano compagni di squadra; in viola giocavamo un calcio dilettantistico, con la squadra di Moratti era professionismo. Devo dire che con la maglia nerazzurra mi sono tolto tante soddisfazioni calcistiche ma era un mestiere, la vera vita era qui a Firenze. Ricordo che dopo l’allenamento uscivamo a fare una partitina a carte con i tifosi… certe discussioni. I tifosi entravano dentro di noi, dentro la nostra vita, ci davano pacche sulle spalle all’uscita dal campo, facevano battute del tipo “Giuliano, non mangiare troppo che poi domenica non pari bene!”. Insomma, ero a casa».
Cosa si porta dietro, invece, dell’esperienza all’Inter?
«Ho imparato tantissime cose, sia come portiere che come uomo. Una delle cose più preziose che porto con me di quella bella parentesi è certamente il rapporto con Angelo Moratti, una persona fantastica.
Mi tornano alla mente tantissimi ricordi, ad esempio che andai a Milano un mese prima dell’inizio del campionato e non avevo un contratto, quindi temevo di farmi male e di ritrovarmi a piedi. All’epoca non era come oggi! Un giorno c’era il triangolare con Milan e Santos e io non volevo giocare. Il Presidente allora mi disse “Va bene, vorrà dire che ti mando alla Spal”… e io gli risposi “Presidente, sono venuto via da Firenze con in mente una cifra, che me la dia lei o la Spal non fa differenza”. Finito il primo tempo, ero in tribuna, mi si avvicinò Befani, che allora non era più il presidente della Fiorentina, e mi chiese perché non stessi giocando; gli spiegai le mie ragioni e lui mi disse “Giuro sulla tomba di mia madre che quello che hai in testa di prendere, se ti fai male, te lo do io”. Allora andai in campo». [ride]
Per lei che ha vissuto un altro calcio, qual è la cosa che le piace meno o comprende meno di oggi?
«Non capisco perché gli allenamenti siano chiusi al pubblico, che male c’è se i tifosi assistono? Sarebbe un modo per riavvicinare la gente alla squadra».
Dicono che sia per non far vedere le tattiche…
«Ma cosa vuoi tatticare! Riaprite gli allenamenti e vedrete che la gente sarà più calda che mai, anche quando i giocatori sbagliano. I tifosi non sentono più la Fiorentina come un tempo perché non hanno la possibilità di vivere la squadra, non si sentono più legati ai giocatori come ai miei tempi».
Veniamo alla Fiorentina di oggi, che squadra vede in questo momento?
«Vedo un po’ di caos, la squadra fatica a trovare la continuità necessaria per raggiungere una ottima posizione di classifica. In più di una occasione abbiamo visto una buonissima Fiorentina nel primo tempo e un disastro nel secondo. Probabilmente è questione anche di preparazione fisica».
Quante responsabilità dà a Paulo Sousa? Le piace il portoghese?
«È un personaggio che non mi dispiace affatto, ci ha mostrato anche delle belle cose. È difficile valutare la sua responsabilità perché lui è uno, poi ci sono altri due/tre allenatori nel suo entourage: c’è chi allena i portieri, chi si occupa della preparazione atletica. Insomma, non so quantificare le responsabilità di Sousa, ma non mi dispiacerebbe se restasse a Firenze. Certo è che occorrono vittorie per riconfermarlo».
In casa Fiorentina ci sono almeno due casi: Badelj e Zarate. Cosa ne pensa?
«Il croato, secondo me, non è un caso. Non stiamo parlando di un giocatore determinante, quindi se vuole andare via che se ne vada. Come si dice, morto un Papa se ne fa un altro.
Per quanto riguarda Zarate, invece, è una vicenda spigolosa: se le condizioni della moglie danno così tanta preoccupazione al calciatore, sarebbe un rischio farlo giocare. C’è anche dice che ci siano problemi con l’allenatore. Per valutare questa storia bisognerebbe essere nello spogliatoio. Qualunque sia la verità, è un peccato che l’argentino giochi così poco perché è un ottimo attaccante e potrebbe far molto comodo alla Fiorentina».
Da grandissimo portiere quale è stato, come valuta Tatarusanu?
«Mi sembra sempre molto lento ma è un buon portiere, come tutti gli altri. Oggi i portieri sono tutti uguali, ad eccezione di due: Buffon, che è il numero uno al mondo, e Donnarumma, che lo diventerà».
Di
Redazione LaViola.it