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Saponara ricorda Astori: “Quella mattina a Udine… Davide ha unito il gruppo, mi incitava. Dentro di me è scattato qualcosa: ho accettato la mia fragilità”

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Bell’intervista di Riccardo Saponara a Sport Week. Ecco le sue parole, nel ricordo di Davide Astori. A partire dalla tragica mattinata del 4 marzo: “Davide non viene giù per la colazione. Vanno a chiamarlo, non risponde, aprono la porta e lo trovano disteso nel letto come se dormisse. Dalla mia camera sento arrivare un’ambulanza, mi affaccio, poi una voce alle spalle: mi volto, è il magazziniere. Rimango di pietra. In camera entra Laurini: che succede?, chiede, allarmato. Si affaccia mister Pioli. È pallido, le lacrime agli occhi, quasi non riesce a pronunciare il nome di Davide. Ci abbraccia. Uno a uno. Ci abbraccia tutti. Chiesa, ignaro, è ancora a dormire. Quando viene avvertito, sento la sua stanza venir giù. Alcuni di noi piangono. Altri vanno avanti e indietro nei corridoi dell’albergo. Altri ancora si siedono davanti alla camera di Davide, fissando nel vuoto”.

Si è dato una spiegazione a una morte tanto prematura e improvvisa? “No. Fosse successo in campo, quando il cuore è sotto stress, forse lo avrei perfino accettato. Ma così, è dura”.

Oggi parlate di Davide quando siete tra di voi, prima e dopo gli allenamenti o una partita? “Si, ogni tanto ne parliamo, lo ricordiamo. Ci confrontiamo: “Ma Davide cosa avrebbe fatto… Come si sarebbe comportato… Pensa se ci fosse stato lui… Lo diceva, Davide…”. Però è difficile. A volte quello che è successo, pronunciare il suo stesso nome, rimane un tabù. Il dolore che abbiamo provato lo teniamo chiuso dentro. Abbiamo deciso di andare avanti e lo stiamo facendo bene, ma sembra quasi che ognuno di noi abbia perfino timore a rievocare quella sofferenza”.

Durante la giornata ci sono occasioni precise in cui Astori le viene in mente? “Per esempio al momento della colazione, nei ritiri prepartita. Io e Marco Sportiello siamo sempre i primi a scendere: assonnati, con la faccia un po’ così di chi è stato tirato giù dal letto. Davide arrivava sempre cinque minuti dopo di noi e immancabilmente entrava in sala con un sorriso radioso, senza un motivo apparente. Dava un bel ‘buongiorno!’ squillante, faceva una battuta, ci chiedeva della sera prima e ci prendeva in giro… Era il suo modo per infondere energia e serenità”.

Era un tipo divertente? “A suo modo, in maniera semplice e naturale. Non recitava, non era un giullare da spogliatoio, aveva piuttosto un carisma forte, caldo, autorevole, da fratello maggiore. Era capace di mettere a proprio agio le persone. Io sono un tipo ansioso, soffro molto l’attesa delle partite. Mi si chiude lo stomaco, mi viene il respiro corto… Davide invece affrontava la gara come se fosse un allenamento: in tranquillità. Mi faceva rabbia: “Ma come fai a non sentire la tensione?”, gli chiedevo. E lui, prendendomi di petto: “Ma di che cazzo di preoccupi? E’ una partita, non la guerra, sei forte, devi darci una mano perché abbiamo bisogno di te”. Certe volte mi mandava whatsapp di incoraggiamento nel tragitto in pullman dall’albergo allo stadio: invece di ascoltare musica con le cuffie inchiodate alle orecchie come tutti, pensava agli altri. Questo era Astori. Uno che trasmetteva sicurezza”.

E’ questo l’aspetto del suo carattere che le manca di più? “Sì. Forse a causa dl brusco distacco dalla mia famiglia quando ero ancora un ragazzo, nelle squadre in cui sono stato mi sono sempre legato a figure di questo tipo, forti e sicure di sé. Sono una persona sensibile e ho bisogno di una guida. Nella lettera che gli ho dedicato ho scritto che a tavola, dopo l’allenamento, appoggiavo la testa alla sua spalla. Lo facevo per stanchezza, ma soprattutto per ricevere conforto e affetto”.

“I primi giorni di ritiro, in estate, in squadra facevamo fatica a legare: c’erano tanti giocatori nuovi, provenienti da campionati e Paesi diversi. Si erano creati i soliti gruppetti: i francesi non parlavano ancora italiano, quelli dell’Est stavano con quelli dell’Est, quelli di lingua spagnola per conto loro… Davide andava da tutti e improvvisava un idioma tutto suo che adattava di volta in volta all’interlocutore. Ha colmato il distacco che c’era tra di noi e ha creato il gruppo che siamo oggi”.

In campo, in cosa avverte la sua mancanza? “Era quello la cui voce si sentiva più di tutte. Ti incitava nel pressing, ti guidava nei movimenti. In questo senso, il leader ora è Pezzella“.

Si dice sempre che eventi del genere spingono chi resta a riconsiderare le priorità della vita. “Avevo già ben chiare le cose per cui vale la pena vivere. Ma dopo il funerale ho tirato fuori delle cose di me che a questo punto della stagione credevo aver smarrito. Quest’anno sono rimasto parecchio ai margini per colpa degli infortuni, subito dopo la sua morte ho pensato: “Adesso è proprio finita, è la botta finale, non mi rialzo più”. Poi il mercoledì, insieme a pochi altri ai quali la famiglia aveva concesso questo privilegio, ho visto Davide nella camera ardente e mi è scattato dentro qualcosa. Al funerale ho finito le lacrime, ho accettato il dolore e la mia fragilità, come non avevo mai fatto prima per paura di passare per un debole. Invece, mostrarmi per quello che sono mi ha reso più forte. È l’ultimo regalo che mi ha fatto Davide”.

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