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La clausura no, non la vogliono considerare. I calciatori di Serie A – di fronte all’ipotesi di un ritiro previsto dal protocollo per poter terminare il campionato – sono contrari, scrive il Corriere dello Sport. Non è una presa di posizione pubblica, non ancora, almeno: i calciatori non ne hanno avuta nemmeno una dall’inizio dell’emergenza Coronavirus. Sono lavoratori dipendenti – già impegnati con questioni contrattuali tra tagli suggeriti/imposti dalle società e mensilità che sono saltate – e in questo momento così cruciale schierarsi apertamente o andare allo scontro non è opportuno. Ma ne parlano tra loro, osservano con attenzione ciò che sta capitando all’estero, valutano gli scenari, hanno affrontato l’argomento con le rispettive società e anche all’AIC la questione è d’attualità: se ne parlerà oggi durante il consiglio direttivo.
MAXI RITIRO. Due mesi chiusi in albergo, senza contatti esterni, lontani dalle famiglie, dai figli, dagli affetti, da una quotidianità che stavano lentamente ritrovando: anche no. Tra l’altro: due mesi che andrebbero a sommarsi ai due abbondanti già passati in isolamento casalingo e che andrebbero a coincidere – come tutti ci auguriamo – con una curva del contagio in calo e con relativi allentamenti alle misure di restrizione degli italiani. A fronte di un’Italia che mette il naso fuori di casa, i calciatori sarebbero costretti a chiudersi a doppia mandata in ritiro. Per poi scendere a giocare ogni tre giorni e tornare in camera: la prospettiva – è un eufemismo – non li esalta.
LE PREOCCUPAZIONI. Perché al di là della naturale soddisfazione per essere tornati in questi giorni a fare il loro lavoro – seppure individualmente e seppure in condizioni alterate – è maturata tra i calciatori la preoccupazione per i due mesi di calcio che ora gli vengono prospettati. Tutti hanno voglia di tornare a giocare se vi sono le condizioni di sicurezza, nessuno vuole accettare di mettere a repentaglio la propria salute o di vivere per due mesi in una «bolla» che li allontani ancora di più dal contesto in cui sono calati. E’ profondamente sbagliato considerare i professionisti di Serie A «estranei» all’ansia e al dolore che attanaglia tutti gli italiani quando la pandemia ha ribaltato le nostre vite. Si sono ammalati (26 contagi ufficializzati in A), hanno avuto paura, sono guariti, sono ancora in quarantena, si sono attenuti ai dettami dei vari Dpcm, hanno avuto familiari e amici contagiati, hanno visto, ascoltato, elaborato pensieri e angosce, come tutti. Hanno quasi tutti vissuto due mesi in condizione di privilegiati, certo, ma ciò non li ha esentati dalla consapevolezza che il Covid-19 non fa distinzione di censo.
I DUBBI. Ora – semplicemente – qualche dubbio sulle modalità della ripresa ce l’hanno. Sui due mesi di ritiro-clausura, sui tamponi a tappeto a cui dovrebbero sottoporsi, sull’ipotesi di quarantena per tutta la squadra in caso di positività di un giocatore, come decreterà il protocollo studiato dal Comitato Tecnico Scientifico. Un calciatore di Serie A che preferisce rimanere anonimo ha confidato: «Siamo fermi da più di due mesi, sappiamo tutti che gli allenamenti casalinghi sono stati utili soprattutto a livello mentale, per distrarci. E’ inutile nasconderlo: una condizione fisica decente non si raggiunge in una o due settimane, per questo sappiamo bene che infortunarsi è un attimo. E noi costruiamo le nostre carriere sul nostro corpo, sui muscoli, sulla nostra condizione fisica: non ci va di esporci a rischi inutili».
 
												
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																					 
																							 
																							 
																							 
																							 
									 
																	 
									 
																	 
									 
																	 
									 
																	 
														 
														 
														
Di
Redazione LaViola.it