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Rassegna Stampa

Guerini: “Fiorentina e nazionale, poi l’incidente e diventare ex a soli 22 anni”

Questa è la storia di un ragazzo cresciuto in oratorio e arrivato in Nazionale. Questa è la storia di un appuntamento col destino raggiunto a cavallo di una Porsche. Questa è la storia di un potenziale campione diventato ex a 22 anni. Questa è la storia di un tecnico «bambino», il più giovane ad aver allenato nella A «moderna». Questa è la storia di Vincenzo Guerini, nato sotto il segno di Maradona. Ne condivide giorno e mese. Gli anni, no: domenica scorsa ne ha compiuti 63, 7 in più del Pibe de Oro. Senza quell’incidente, forse si sarebbero ritrovati faccia a faccia al Mondiale 1982. Perché Guerini aveva tutto per seguire la scia del compagno Giancarlo Antognoni. E invece le strade si separarono in modo brusco: era il 24 novembre 1975.

Gamba Maciullata. «Mentre rotolavo per l’autostrada pensavo “ora muoio”. Dopo 80 metri finisco contro il guardrail. Mi riscopro vivo ai bordi della carreggiata. Poi vedo la gamba destra: è maciullata. Penzola, il polpaccio non c’è più. Mi soccorre una camionista: gli chiedo la cintura, stringo sotto il ginocchio per fermare l’emorragia». Guerini è nato in provincia di Brescia. Genitori tosti: lavoro e ancora lavoro. Freddo, nebbia, neve e lunghi inverni non lo spaventano. E quando quella mattina maledetta la partita dell’Under 23 è annullata per la neve caduta su Ascoli, gli viene spontaneo dire al compagno Mimmo Caso: «Monta in macchina, torniamo a Firenze per l’allenamento». Guerini ha già bruciato tutte le tappe: esordio in B col Brescia a 18 anni, a 20 lo compra la Fiorentina. Gigi Radice dopo qualche match lo lancia titolare. Non esce più. «Esordio contro il Napoli, c’erano 70 mila spettatori. Io non avevo mai visto una gara di A. “Ora devi correre più di tutti. Oppure torni riserva”. Avevo una buona tecnica, ma a Firenze ero la guardia di Antognoni.

Insomma, sbuco da ogni parte. Recupero palloni su palloni. E conquisto il posto». Scala le gerarchie in A e Nazionale: gioca in tutte le selezioni, una presenza nella maggiore. A Genova, 0-0 contro la Bulgaria. «Come toccare il cielo con un dito. Da piccolo ero interista sfegatato. Sapevo a memoria tutte le formazioni. Le so ancora: Buffon, Burgnich, Facchetti… Boninsegna e gli altri campioni li avevo visti solo sulle figurine. Gli davo del “lei”. E loro ridevano. Il ricordo più bello è legato a due sfide. La prima contro l’Olanda di Cruijff nel 1974. Sto in panca: dopo 45’ siamo 1-1, gol di Bonimba. Nella ripresa ci fanno neri: 3-1. Ad Antognoni dico: “Oh, li abbiamo chiusi per bene nella nostra area…”. La seconda: amichevole col Bayern. Contrasto su Beckenbauer, lui fa una finta e prendo un tunnel clamoroso. In Nazionale avrei detto la mia: Bernardini mi aveva segnalato alla Fiorentina, Bearzot mi vedeva bene. E di mediani come me non ce n’erano molti. Senza l’incidente…».

Dal campo alla panchina. «Dai, monta in macchina…», dice a Caso. E Caso si fida. Tanto da addormentarsi durante il tragitto: Ascoli-Bologna-Firenze. Un paio di chilometri al traguardo: c’è una curva, poi la galleria. E c’è il destino oppure il caso, con la «c» minuscola. «Sapevo il percorso a memoria, taglio il tornante e scuoto Mimmo. “Siamo arrivati”. Riguardo la strada: le barriere a un passo dalla portiera. Giro di botto lo sterzo, inchiodo. La macchina va in testacoda. L’attimo dopo rotolo tra le corsie: “E’ finita”, penso». E invece la storia continua. In un altro modo. «Sto 76 giorni in ospedale, subisco diversi interventi. Dopo il primo, mi sveglio e cerco la gamba: ero convinto dell’amputazione. Il calvario dura quasi due anni. Vado in Austria per un trapianto innovativo, il dottore mi dà qualche speranza. E intanto i miei amici-compagni continuano a giocare. Il giorno più brutto è stato quando sono andato in sede per dire che non avrei mai più fatto il calciatore. Correvo male, non potevo saltare. Inutile prendersi in giro. Ero terrorizzato. A Firenze avevo uno stipendio di 300 mila lire, ma prendevo un milione per ogni vittoria. “Mi toccherà fare l’operaio”. E invece mi hanno aiutato. A partire dalla Figc: dopo il mio incidente i giocatori convocati in Nazionale sono sempre assicurati». La Fiorentina gli apre un portone: «Prova a fare l’allenatore…».

Guerini ha dentro ancora il fuoco sacro del pallone. «E’ la cosa che mi manca di più anche ora. Coi ragazzi ero cattivo, ma il ruolo mi ha sedotto. Sono arrivati i successi: scudetto e il Viareggio con la Primavera. L’Empoli decide di affidarmi la panchina in B: due salvezze. A 31 anni mi chiama Anconetani a Pisa: alleno in A gente più grande di me». Si mescolano momenti belli e brutti. Sportivi e umani. «A Catanzaro in B, con uno straordinario Palanca a fine carriera, ci danno per spacciati: facciamo un campionato fantastico. La A rubata per un punto:accade di tutto con Bologna e Lazio. La promozione la centro ad Ancona. Ed è la mia gioia più grande: città ubriaca di felicità. Le delusioni? A Napoli arrivo nel momento peggiore: non c’erano soldi neppure per il ritiro. Mi esonerano prima di una gara in Coppa Uefa a Boavista: lo scopro dopo la sfida, pareggiata, dai giornalisti. E Piacenza: ci salviamo in A con la squadra tutta italiana. Miracolo. Eppure a fine torneo non mi confermano. Pugnalata».

Radice, Rocco e Montella. La storia di Guerini ha un terzo tempo. «Non ne avevo più da allenatore. Mi scopro club manager a Firenze. Poi Delio Rossi prende a schiaffi Ljajic: esonerato. Mancano 2 gare, rischiamo la B. “Presidente, guido io la squadra”. Non ho dormito una settimana, sveglio a parlare con la mia seconda moglie Ginetta. Alla fine vinciamo a Lecce: salvi. La stagione successiva arriva Montella. Quando ho visto come lavorava, vado da lui: “Straccio la tessera da tecnico, sei un fenomeno”. Non mi sorprende che il Milan sia così in alto: Vincenzo insegna calcio, è il Guardiola italiano. Il futuro? Credo di poter dare ancora qualcosa, aspetto una chiamata. Se non arriva, pazienza: il calcio mi ha dato tanto. L’incidente? Uscirne vivo è stata una grazia. Qualche volta ripenso alla telefonata di Radice, estate 1975: “Ho chiesto al Torino di prenderti. Hanno offerto un miliardo, ma la Fiorentina ha detto no. Vuole Pulici o Graziani”. Per Radice mi sarei gettato nel fuoco. Dopo ho avuto un mito come Nereo Rocco. Una domenica era indeciso tra Desolati o Speggiorin. In dialetto ordina: “Fate pari e dispari”. E’ inutile pensare a quello che poteva essere. Dalla vita ho avuto molto. Comprese 2 figlie stupende: Caterina e Susanna. Sono un ragazzo fortunato. Il destino è stato bastardo con altri. Con il mio ex compagno Galdiolo. Mi faceva da autista a Firenze quando stavo in stampelle, ora è un vegetale: non riconosce nessuno. O peggio, con mia sorella: faceva atletica, è morta a 18 anni. Tumore al cervello».

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