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Dunga: “In viola anni bellissimi, poi finii fuori rosa. Juve? Vincere ma nel rispetto delle regole”

Dunga

Parla il grande ex viola: “Quella finale di Coppa Uefa con la Juve ad Avellino… Ecco perché finii fuori rosa. Beneficenza? La scintilla al Marisa a Firenze”

Carlos Dunga, brasiliano grande ex viola, ha parlato alla Gazzetta dello Sport anche di Fiorentina. Ecco le sue parole: «Ritiro da allenatore dopo la Selecao? C’erano i miei figli da crescere, mi avevano seguito in Italia, Germania e Giappone. Dovevano costruirsi a casa la loro vita. Sarebbe dovuta arrivare una proposta cui era impossibile dire no. Non è arrivata».

FIORENTINA. Quattro anni alla Fiorentina. «Bellissimi, pieni. Eravamo un gruppo molto unito. Quando venne Pruzzo ancora di più. Dopo l’allenamento andavamo a prendere l’aperitivo insieme. Lui girava sempre con la sua Porsche. Lo prendevamo in giro. “Da dirigente, al massimo, ti potrai permettere una Fiat Uno”».

LEADER. In campo ti facevi sentire, eri un gran rompiscatole. «Quella Fiorentina aveva bisogno di un rompiscatole. Doveva sempre dare qualcosa in più».

BAGGIO. Il giovane Baggio si affidò a te. «Baggio era un brasiliano mascherato da italiano. Si divertiva con il pallone. Era veramente felice solo quando stava in campo. A fine allenamento ci fermavamo io, lui e Borgonovo a battere punizioni e a tirare al volo».

BORGONOVO. Borgonovo, triste storia. «Abbiamo avuto dei casi come il suo anche qui da noi. Leggo tanto su questo argomento, ma la scienza non è arrivata a conclusioni certe. I farmaci? Ho sempre cercato di prenderne il meno possibile».

ADDIO. Arriva Vittorio Cecchi Gori e decide che non servi più alla Fiorentina. «Con il padre Mario avevo una bellissima relazione. Poi, purtroppo, è arrivato il figlio con un altro personaggio. M’invitano a cena e mi dicono che sarò il loro capitano, ma avrei dovuto raccontare le cose che accadevano nello spogliatoio». Dovevi fare la spia? «Ho risposto che non ero il personaggio giusto per fare questo. Poi ho commesso un grande sbaglio: ho raccontato il fatto ai giocatori e due minuti dopo la cosa era arrivata al presidente. Sono finito fuori rosa».

COPPA UEFA. La sconfitta più dolorosa? «Due. Quella con l’Argentina a Italia ’90. Non la meritavamo, il Brasile aveva giocato molto meglio». L’altra la finale di Coppa Uefa con la Juventus… «Indovinato. Lottavamo per non retrocedere, ma avevamo giocato meglio di loro in quella doppia finale. Ci fecero giocare il ritorno ad Avellino per un’assurda squalifica del campo. La Juventus era all’epoca molto forte politicamente». “Vincere è l’unica cosa che conta” è il suo manifesto. È anche il tuo? «Vincere è importante, ma nel rispetto delle regole».

BENEFICENZA. Ti hanno visto più volte durante la pandemia in giro per Porto Alegre con un camion a distribuire viveri porta a porta. «In tutti questi anni abbiamo distribuito con le nostre organizzazioni di volontari, grazie alle aziende che ci aiutano, 800 tonnellate di cibo, tra frutta, verdura, riso e fagioli». Non solo cibo. Farmaci, coperte e sacchi a pelo nelle notti fredde d’inverno. «Con i nostri amici medici offriamo medicine e chirurgia ai chi ne ha bisogno, abbiamo costruito case. All’inizio non volevo che si sapesse. Poi i miei amici mi hanno convinto che era importante divulgarlo. La speranza è che diventi un esempio contagioso». La scintilla di tutto questo? «A Firenze, al bar Marisa davanti allo stadio dove andavamo coi tifosi. Mi chiesero di fare una visita all’ospedale dai ragazzi paraplegici. Un’esperienza che mi ha sconvolto. Quel giorno ho capito che un calciatore famoso ha il dovere di essere anche un cittadino, di far parte della comunità».

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