Proseguono le analisi di cosa stia accadendo al calcio italiano dopo il flop della Nazionale di Mancini. Sempre meno convocabili, e il flop dei settori giovanili
C ’ è una correlazione tra l’aumento di calciatori stranieri in Serie A e il peggioramento dei risultati della Nazionale, sottolinea il Corriere Dello Sport. Dalla stagione 1996/97, con l’entrata in vigore della sentenza Bosman, l’incremento del numero dei giocatori non italiani per squadra è stato costante, continuo e senza sosta. Da una media di 5,4 stranieri impiegati dai club in quella stagione, la prima in regime di libera circolazione, agli 8,3 per squadra del campionato 2005/2006. Il dato raddoppia ancora nel giro di dieci anni (16,4 nella stagione 2015/2016) fino a toccare un picco proprio quest’anno, campionato 2021/2022, quando ogni club di A ha impiegato in media 18,8 stranieri.
È lecito chiedersi: oggi, troppi stranieri o pochi italiani di qualità? Di fatto, mentre la curva degli stranieri andava aumentando, il bacino azzurro da cui attingere si è sempre più assottigliato, ridotto. Nella stagione 1995/96, l’ultima prima dell’entrata in vigore della Bosman, il totale degli stranieri in A era di 66. Sarebbe antistorico anche solo pensare a un ritorno a un massimo di tre stranieri per club come era in quel periodo. E l’assenza di leggi sullo ius soli non aiuta. È chiaro, però, che la curva di stranieri in costante aumento non può non incidere sui flop della Nazionale. Si è arrivati ad attingere a un bacino di giocatori italiani del 36%: appena 143 su circa 500 totali. Solo Cipro, Turchia e Grecia sono in condizioni peggiori della nostra.
Sull’argomento si concentra anche Repubblica. Formare un ragazzo costa tempo e soldi: è un lavoro che può dare risultati a medio — lungo termine, devi investire nello scouting per prenderlo magari a 11 anni, e poi garantirgli per almeno 7 anni allenatori all’altezza, strutture adeguate, sperando che a 18-19 anni possa tornare utile. Un grande investimento di tempo e denaro. Così sempre più spesso si cede alla scorciatoia: prendere ragazzini stranieri rimasti senza contratto in patria (non prime scelte), quindi liberi dai 16 anni di accasarsi altrove — l’Europa garantisce la libera circolazione dei lavoratori — con un contratto “giovanile” fino ai 18 anni. Per i club è un vantaggio enorme: pagano solo vitto e alloggio. Unica condizione è, ovviamente, farli giocare. Anche perché spesso vengono inseriti dagli agenti come pedine di operazioni più grandi.
Già nell’Under 17 oggi si trovano club con 3, anche 4 ragazzini presi dall’estero. Nelle Primavera sono il 33%. Inevitabile trovino meno spazio i calciatori di formazione italiana nell’età chiave della loro crescita. Nel 2014, dopo l’ultimo Mondiale a cui l’Italia abbia preso parte, i ragazzi tesserati col Settore giovanile scolastico erano 698 mila. Nel 2019, quindi prima della pandemia, ne avevamo persi per strada circa 44 mila. E, paradossalmente, la loro formazione è a carico quasi esclusivo delle famiglie. Le scuole calcio sono diventate a tutti gli effetti un business: le quote d’iscrizione (a volte altissime, anche 8-900 euro a bambino), sempre più spesso servono a sostenere economicamente tutta la società, che ha magari una squadra nei campionati dilettantistici. E per renderlo possibile si risparmia su tutto: pochi allenatori formati e abilitati, che costano troppo. Meglio volontari che lo facciano per passione, ma con dubbie qualità. Come non bastasse, trasferte e materiale sportivo sono regolarmente a carico delle famiglie. Nel calcio giovanile si paga per tutto, persino per giocare: nel mondo dilettantistico giovanile, abbondano dirigenti che prendono soldi anche per un provino. Che alla firma del contratto pretendono soldi, minacciando di stracciare il contratto. Qualche famiglia convinta di avere in casa il campione di domani paga. Altri cercano sponsor.
Il ruolo di controllo spetta ovviamente alla Figc. O meglio, al Settore giovanile scolastico. Nel 2020, post pandemia, la Federcalcio ha offerto circa 2 milioni di euro come contributo per i tesseramenti e per le società di solo settore giovanile. Il progetto dei centri federali non è decollato. Meglio le scuole calcio élite: centinaia di strutture in tutta Italia che garantiscono personale formato e persino lo psicologo. Un passo: ancora troppo poco.

Di
Redazione LaViola.it