Le parole del giocatore viola sul momento appena dopo il malore in campo: “Gridavo, mi dimenavo. Ho urlato “Fiorentina” fortissimo. Mi hanno dovuto legare”.
L’intervista esclusiva di Vanity Fair al giocatore della Fiorentina, Edoardo Bove, sul recupero della partita tra Fiorentina e Inter: “È come se si fosse chiuso un cerchio. Tutto è ripartito da quel momento, dopo un lungo stand-by. Ma certe immagini restano impresse: ho rivisto le maglie, gli stessi colori, lo stadio… la testa inevitabilmente fa i suoi giri”.
Che giri ha fatto, ieri sera? “Di solito esco per assistere al riscaldamento, ma ieri no, sono rimasto in spogliatoio fino alla partita. Sapevo che avrei avuto tutta l’attenzione addosso, tutti volevano vedere la mia reazione. Mi sono detto: “E io gliela faccio vedere il meno possibile”. Ho voluto scappare, sì. Sono fatto così: non mi piace esternare le mie emozioni. Poi ho capito. In questo periodo tante persone mi hanno scritto raccontandomi di avere avuto un problema simile al mio: sono un ragazzo di 22 anni e non posso certo dare insegnamenti a nessuno, ma voglio testimoniare il fatto che è una cosa che può capitare, che non è così rara, e soprattutto che non sono un supereroe nell’essermi ritrovato a doverla affrontare”.
L’hanno descritta così? “Sono tornato subito con la squadra, sono sempre positivo, sorridente. L’idea che è passata è un po’ quella”.
E invece? “Invece ci sono alti e bassi. Ci sono volte in cui mi sveglio e non so dare un senso alla giornata”.
Che ricordi ha di quel primo dicembre, di quel diciassettesimo minuto? “Ricordo davvero poco, che ero in campo e che a un certo punto ha cominciato a girarmi la testa come quando ti alzi troppo velocemente dal letto, ho avvertito una sensazione di spossatezza… e basta. Non ricordo di essere caduto. Mi sono risvegliato in ospedale, toccandomi le gambe perché pensavo mi fosse successo qualcosa al ginocchio, un incidente. Per me, all’inizio, non è stato difficile come per i miei cari: io non capivo nemmeno la gravità della situazione, pensavo di essere semplicemente svenuto. Loro invece sapevano di avere corso il rischio perdere un figlio, un amico, o di potermi rivedere in condizioni… brutte”.
E ricorda qualche sensazione dei minuti in cui ha perso coscienza? “No, il nulla. Mi hanno raccontato, però, che quando ero in ambulanza ho fatto un po’ di casino: gridavo, mi dimenavo, dicevo cose a caso. Ho urlato “Fiorentina” fortissimo. Mi hanno dovuto legare”.
Ha rivisto le immagini di quando si è sentito male? “Subito, su Instagram. Preferisco prenderle di petto le situazioni, reagire immediatamente: se non posso farci niente, mi dico “andiamo avanti, vediamo cosa posso fare subito per stare meglio”. Capire le cause di quello che mi è successo è stato il passo successivo”.
Che cosa ha pensato? “Sincero? “Ammazza che figura di… davanti al mondo intero. Ma non potevi scegliere un altro momento?!”. Era la partita delle 18, quella per il primo posto in classifica, la stavano guardando tutti. Detesto farmi vedere vulnerabile. Subito dopo, però, ho capito di essere stato molto, molto fortunato. Ho rischiato tanto, devo essere grato alla vita perché tutto è successo in un campo di calcio, col soccorso a portata di mano: in 13 minuti ero in ospedale. Non so come sarebbe andata, se fosse successo in un’altra circostanza. Dopo aver metabolizzato, mi sono sentito la persona più felice del mondo”.
Ha capito da solo che sarebbe potuto morire? “No, me l’hanno detto”.
E qual è stata la sua reazione? “Inizialmente mi hanno prospettato una situazione persino più grave di quanto realmente fosse. Ma lì per lì ero semplicemente contento di essere vivo. Era destino che andasse così, che mi salvassi. Non c’è altra spiegazione”.
Si è chiesto «perché proprio a me»? “Certo. E anche “perché proprio nel momento migliore della mia carriera?”.
Che cosa si è risposto? “Mi reputo una persona buona, che rispetta sempre tutti, non ho fatto male a nessuno. A quelle domande non ci sarà mai una risposta”.
È credente? “Credo ci sia un qualcosa di superiore, qualcosa al di fuori del nostro controllo, ma chi sono io per sapere che cosa sia? Credo nessuno possa saperlo”.
È un pensiero che l’ha aiutata? “Sì e no. Se le cose sono andate così, è perché dovevano andare così. Credo nel destino, ecco. Noi possiamo decidere solo come reagire al destino”.
Ha passato 12 giorni in ospedale. “Stavo bene, ero tranquillo. Ma vedevo la preoccupazione e la sofferenza negli occhi delle persone che mi vogliono bene. Sono un personaggio pubblico, sono abituato all’attenzione mediatica, anche alle notizie prive di ogni fondamento. Loro no. Hanno scritto qualsiasi cosa: che non sarei più potuto tornare a giocare, che mi sarei operato un certo tal giorno… Mia nonna mi ha chiesto: “Ma come, ti operi domani e non mi dici niente?””.
Le ha fatto male? “Sì, certi titoli, la ricerca dello scoop a tutti i costi. A un certo punto ho smesso di leggere i giornali”.
Come è andata, quando è uscito dall’ospedale? “All’inizio ho saputo reagire con forza. Ma poi è arrivata anche la tristezza: mi sono buttato giù, non volevo vedere nessuno, non volevo fare niente. Non avevo voglia”.
Credo sia normale, ma lei come se lo spiega? “Sono un po’ ossessionato dal controllo, una delle mie più grandi paure è perdere quello della situazione. Non ho potuto controllare ciò che mi è successo, e quindi, sotto sotto, già ero arrabbiato per quello. E poi, in questo momento, mi sento completamente in balia degli eventi, impotente”.
Era arrabbiato con se stesso? “Lo sono ancora, un po’. Mi viene da chiedere al mio cuore: “Ma che scherzetto mi hai fatto, ma ce n’era proprio bisogno?”.
E che cosa le ha risposto il suo cuore? “Sto ancora cercando la risposta, è un’analisi che sto facendo dentro di me. Dal punto di vista medico c’è certamente una causa scatenante, ma ancora la dobbiamo capire fino in fondo. Sto facendo dei controlli, e altri ne farò ancora. Su questo fronte sono positivo e tranquillo. Però…”.
Però? “Però è come se il cuore mi volesse mandare un segnale”.
Quale? “Queste cose succedono quando il cuore è sotto sforzo, forse troppo”.
Si sente in colpa? “No, sono molto sicuro di me, orgoglioso, mi sento forte. Ma questo incidente mi ha fatto dubitare della mia forza. Non vorrei arrivare a dire di essere stato io stesso a mettermi nella condizione di provocare tutto ciò, ma alla fine, dentro di me, in qualche modo…”.
Quanto è importante il calcio nella sua vita? “È uno dei miei più grandi amori. C’è quello per la mia famiglia, quello per la mia fidanzata e quello per il calcio”.
In quest’ordine? “Non le dico che siano tutti allo stesso livello, ma insomma. Io, ora, sento di non essere lo stesso senza il calcio. È difficile esprimere cosa sia il calcio per me: le sembra troppo se dico che è una forma d’arte?”.
Se lo pensa… “So che può sembrare esagerato, perché giustamente uno pensa: “Vabbè, rincorrono un pallone…”.
Di
Redazione LaViola.it