Il saluto di Ludwigzaller al fuoriclasse del giornalismo sportivo Gianni Mura, recentemente scomparso
Da ragazzino, come molti di quelli della mia generazione, mi affascinava la politica. E far politica voleva dire entrare in contatto con i giornali. Con L’Unità innanzitutto, paludata e un po’ noiosa, ma anche con Lotta Continua che i ragazzi più grandi vendevano davanti alla scuola, e con l’elegante e distaccato Manifesto. Illeggibile mi pareva il Corriere della Sera, per le dimensioni e le righe fittissime. E non mi bastava che ci scrivessero Buzzati, Montale e Tobino. L’educazione calcistica mi veniva impartita dai grandi giornalisti fiorentini de La Nazione e già allora compulsavo con attenzione le cronache sportive, ma ci voleva altro per una generazione che sdegnava il vecchio linguaggio ed era attirata da fumetti e cinema.
Fu così che scopersi Il Giorno. Diretto da Gaetano Afeltra, era graficamente già moderno e aveva una splendida pagina sportiva. Di calcio scriveva su Il Giorno Brera, di ciclismo Fossati, di tennis Gianni Clerici. Ma Il Giorno vendeva poco ed era di proprietà dell’Eni che se ne voleva liberare. E qui successe qualcosa che nel calcio si è spesso visto, una società in crisi viene cannibalizzata da un’altra in ascesa e con più soldi a disposizione. Fu Eugenio Scalfari, forte dei finanziamenti di De Benedetti, a lanciare la scalata a Il Giorno e a spogliarlo di tutti i migliori, tra i quali Giorgio Bocca e l’Aspesi. Era nata La Repubblica, e ora tutti i campioni reduci da Il Giorno scrivevano lì. Il giornale doveva essere rivoluzionario nei temi e nell’impostazione: e lo era (i più giovani dimentichino l’attuale giornale con lo stesso titolo). Durante le riunioni iniziali si discusse se fare una pagina sportiva, il calcio era considerato un sistema per tenere il popolo nell’ignoranza e nel disimpegno, e i raffinati e spocchiosi giornalisti di Scalfari non lo volevano. Nei suoi primi anni La Repubblica il lunedì non usciva.
La sezione dedicata allo sport si fece alla fine e ne valse la pena. I reduci de Il Giorno, Brera, Fossati e Clerici raccontavano le rispettive discipline in un modo del tutto nuovo, concreto, semplice, moderno, popolare e ironico. Erano raffinati scrittori, avevano tutti studi letterari alle spalle (Brera aveva fatto la tesi in storia) e avrebbero nella loro carriera scritto romanzi. Ciclismo tennis e calcio erano già allora gli oggetti della mia passione e si può immaginare con quanto piacere leggessi i loro articoli. Mura arrivò per ultimo, da La Gazzetta, fece in modo di ingraziarsi Brera e divenne il suo allievo, riprendendo dal maestro l’ironia, l’impasto dialettale ormai studiato dai filologi, l’inimitabile tono popolaresco, che era anche la cifra delle canzoni di Iannacci e Gaber, del teatro di Fo e della scrittura romanzesca del Gran Lombardo Gadda. La frequentazione delle trattorie, il cibo e il vino, erano elementi essenziali, come i sigari toscani, di quello stile di vita, sicché non si badava molto alla linea e le vistose bretelle contenevano a stento i considerevoli lombi. Un caso a sé era quello di Clerici, che di bianco vestito e magrissimo girava il mondo per raccontare le imprese di Panatta e di Borg. Di questo gruppo, Mura era uno degli ultimi sopravvissuti ed epigoni. Doveroso salutarlo con quel “ti sia lieve la terra”, che Brera aveva ripreso dalle epigrafi delle tombe romane, e che si legge alla fine del necrologio che Mura scrisse per la morte del suo mèntore.
di Ludwigzaller
Nella foto: Brera col giovane Mura.
Di
Redazione LaViola.it