Pierre Bayle analizza l’esperienza dei vari allenatori che si sono susseguiti sulla panchina della Fiorentina negli ultimi anni e riflette anche su cosa aspetta Italiano e i viola da gennaio in poi
Allenatori vecchio stampo, un po’ sgualciti e spettinati, se ne vedono sempre meno. Maghi della panchina, o presunti tali, che tengono in serbo la ricetta per il successo, non sono mai passati di moda. Mister tutti grinta e motivazione sono la moda degli ultimi anni, dove la psicologia di gruppo e le pubbliche relazioni sono diventate parte integrante del lavoro almeno quanto la tattica e la preparazione alla stagione e alle partite. L’allenatore sembra destinato a sopperire sempre più alle deficienze dei giocatori in campo, la sua figura è posta al centro di un cerimoniale codificato, lo si interroga in sala stampa prima e dopo, lo si segue con occhio acuto e si carpiscono indicazioni ed esclamazioni durante la partita, lo si segue nei movimenti, nei labiali, nei gesti, vissuti alla stregua di un tiro o di una parata, come se da questi dipendesse il risultato della partita.
Un tempo con l’allenatore la stampa aveva un approccio colloquiale, le interviste erano informali, magari mentre rientrava negli spogliatoi, talvolta gli si chiedeva un parere anche a partita in corso, o in mezzo alla folla di giornalisti e addetti a vario titolo nella pancia dello stadio. Oggi invece dev’essere abile comunicatore con la stampa così come fine psicologo con la squadra e abile negoziatore con la dirigenza… Quante cose tutte insieme, quante componenti con cui andare d’accordo. La centralità della figura è divenuta tale da giudicarlo spesso come se il suo fosse uno sport individuale, prescindendo dalla squadra che allena e dal momento che attraversa, o portando tali argomenti ad aggravante o a discolpa dei risultati conseguiti. Ogni mister si regola secondo il proprio modo di essere o secondo il contesto in cui si trova ad operare. Invece di indagare il campo degli archetipi, andando a prendere gli allenatori più celebrati, limitiamoci a quelli che abbiamo avuto noi in tempi recenti.
Stefano Pioli venne chiamato, dopo aver occupato senza successo una panchina molto importante come quella dell’Inter, per gestire la Fiorentina in fase di smobilitazione dell’ultimo scorcio dell’era Della Valle. Squadra completamente rivoluzionata e decisamente indebolita rispetto a quella dell’anno prima, il suo apporto venne fortemente sottovalutato da chi, vedendo maglie viola in campo, pretendeva risultati a prescindere da chi stava dentro a quelle maglie. ‘Padre Pioli’, come lo chiamavano i detrattori, seppe costruire una squadra con i giocatori che aveva, sia sotto il profilo della coesione, che dal punto di vista tattico, trovando soluzioni affatto scontate per dare un senso ad una rosa composta da elementi per niente complementari. In pochi lo apprezzarono come tattico, mentre gli si riconoscevano volentieri capacità da buon psicologo. La vicenda Astori segnò nel profondo quella squadra. Ognuno di coloro che ne fecero parte si porterà dietro per il resto della vita l’appartenenza a quella Fiorentina, e rimarranno per sempre uniti da quell’esperienza. È probabile che dentro lo spogliatoio prese il sopravvento un senso di sacralità verso il gruppo, tale da determinare una reazione di rigetto verso la dirigenza nel momento in cui questa mise in dubbio la posizione del suo leader, cioè l’allenatore. Vogliamo accusare di scarsa professionalità Pioli e la squadra, o di scarsa capacità la dirigenza di allora per non aver compreso il momento ed aver fatto la parte dell’elefante nella cristalleria? Fatto sta che Montella si trovò ad allenare una non-squadra, che rischiò seriamente di retrocedere mettendo in fila una serie impressionante di sconfitte. Alcuni mesi dopo Pioli venne ingaggiato dal Milan, e in poco tempo inaugurò una lunghissima serie di successi che lo avrebbe portato poi alla vittoria del campionato, e alla salda conduzione di una delle squadre più competitive della Serie A. Come sarebbe cambiata la nostra storia se i Della Valle avessero lasciato in eredità a Rocco Pioli invece di Montella? Purtroppo non lo sapremo mai.
Ereditato appunto dalla precedente proprietà, Montella non ha rinverdito i fasti di sei anni prima. Avendo individuato nella squadra il grande problema della stagione precedente, di comune accordo con la nuova dirigenza il gruppo venne quasi del tutto smantellato a un mese e mezzo dall’inizio del campionato. Il risultato fu il prolungamento dell’agonia della stagione che si era appena conclusa, venendo esonerato dopo che il tempo a lui concesso per rimediare era stato più che sufficiente, e in tempo utile per cercare di invertire la tendenza con un nuovo allenatore. Scarsamente empatico, Vincenzo non riuscì a creare una squadra dal niente come aveva saputo fare Pioli due anni prima, vanificando così anche alcune buone intuizioni sul piano tattico.
E fu per questo che arrivò Beppe Iachini, il quale lavorò con indubbio impegno e scrupolo per assolvere al compito che gli era stato demandato: la salvezza. Missione compiuta, e anche in modo piuttosto brillante, visto che la squadra si salvò con ampio anticipo, arrivando decima, mentre il Covid infuriava condizionando pesantemente anche il campionato, portato a termine come si poteva nelle condizioni date. Il Covid condizionò anche la stagione successiva, cominciata a ridosso di quella appena conclusa, con un mercato ben poco movimentato, a partire da quello degli allenatori, che forse segnò il record di conferme sulle panchine di Serie A. Poco tempo e pochi soldi… cambiarono solo le squadre che avevano assoluta urgenza di cambiare, aspettando che passasse la tempesta. Beppe beneficiò del momento. “Perché cambiare un allenatore che si è ben comportato, a poche settimane dall’inizio del campionato, con una squadra quasi uguale a quella che aveva allenato fino a quel momento?”, si chiese Rocco. “Perché non è all’altezza”, gli rispose Pradè, che aveva già preso accordi con Juric, artefice del Verona dei miracoli. Il presidente non si fece convincere sul momento, ma alcune partite dopo, quando davanti ad una squadra abulica e senza gioco acconsentì a sostituire Beppe con Cesare. Il quale Cesare, chiamato non a rinverdire fasti, ma a dare un senso a una squadra che un senso non ce l’aveva e non voleva averlo, gettò la spugna, non prima di aver litigato con mezza rosa e aver fatto crescere a tempo di record il giovane Vlahovic, che anche sotto il richiamato Iachini sarebbe stato artefice della salvezza.
E stavolta, fu punto e a capo. Certo, dopo una falsa partenza, quella con Gattuso, ennesima impuntatura di Rocco, a cui però Pradè potè finalmente rimediare prendendo Italiano. A un anno e mezzo dal suo arrivo a Firenze alcuni considerano Italiano un cinico arrivista, altri un genio costretto a lavorare con scarsi mezzi, altri ancora un signorsì della dirigenza. L’anno scorso Italiano ha fatto quello che mi aspettavo e che era necessario fare: aria nuova, entusiasmo, vitalità, ha creato una squadra garibaldina che giocava un calcio offensivo, cosa che da troppi anni mancava su questi schermi. Davanti alle difficoltà emerse a metà campionato riferibili al caso Vlahovic mal gestito dalla dirigenza, ha saputo trovare le opportune contromosse, dando una certa maturità alla squadra e migliorandola in quella che era la carenza più grave, ovvero la fase difensiva. I risultati della stagione, pur avendo attraversato momenti complicati, gli hanno dato ragione, e siamo tornati a veder l’Europa dopo tanto, troppo tempo.
Anziché riprendere la strada principale, cioè quella del furore agonistico, della velocità, del “garibaldinismo” spinto, quest’anno Italiano ha scelto di proseguire su quella della squadra prudente, che si difende tenendo palla, sbagliando per giunta la scelta del centravanti, demandata al suo procuratore, e la preparazione estiva. Risultato, un cannoniere abulico e una squadra imballatissima e soggetta a infortuni a pioggia… la situazione peggiore per affrontare il ritorno in Europa e il calendario più serrato che una squadra si sia mai trovata ad affrontare. Da un lato, il dazio pagato all’inesperienza a questi livelli, dall’altro la determinazione ad ergersi ad allenatore superstar, artefice delle fortune della squadra, che vince grazie a lui e perde a causa dei giocatori, secondo le mode di questi anni, condizione a quanto pare indispensabile per fare carriera.
Solitamente molto neutro nei rapporti con i giornalisti, Italiano ha mostrato il suo nervosismo per la complicata situazione in almeno due momenti. Quando dopo l’infortunio di Milenkovic diede colpa alla stampa, che non capiva la necessità del turnover, e dopo la sconfitta di Istanbul, quando confessò pubblicamente che non sapeva che pesci pigliare. Da quel momento invece ha smentito se stesso, poiché dalla successiva partita contro il Verona cominciammo a vedere quei cambiamenti che hanno portato alla recente evoluzione del gioco, accompagnati da una graduale ripresa della condizione fisica della squadra, arrivata in piena forma… alla pausa per la Coppa del Mondo.
Cosa aspettarsi dal 4 gennaio in avanti?
In primo luogo una squadra fisicamente in salute, che riparte a mille, determinata e vogliosa di accumulare punti. È il prerequisito per disputare una seconda parte di stagione di buon livello. In secondo luogo, un ulteriore miglioramento delle soluzioni di gioco che abbiamo cominciato a vedere nelle ultime partite, maggiore intesa sul campo, idee chiare e ben eseguite. Il mercato è questione secondaria: abbiamo ben visto che se la squadra non gira, non ci sono giocatori che determinano il risultato. L’aggancio al settimo posto è assai difficile a causa dei molti punti lasciati per strada nel complicato inizio di stagione, ma non impossibile. L’opportunità di rimanere in corsa fino alle ultime partite dipenderà molto dalla capacità dell’allenatore di essere all’altezza del ruolo di fattore determinante che si è voluto e ha voluto imporre. Per fare questo, dovrà passare da un gioco “europeo”, fatto di ritmi alti, tanta corsa, lucidità e determinazione, facendo leva sulle caratteristiche di alcuni dei migliori elementi, come Amrabat, Ikoné, un Dodo che speriamo di veder crescere, e Nico e Sottil quando rientreranno.
E in tutto questo, la dirigenza?
Quella passata dimostrò nel suo lungo percorso la scarsa empatia con le cose di calcio, la poca considerazione per il fattore umano, tanto importante sul campo da gioco come fuori, imponendo continue aperture e chiusure di “cicli”, a seconda della volontà di rientrare dalle spese. Quella attuale ha girato a vuoto per due anni, aggiungendo all’inesperienza difficoltà mai sperimentate prima come quelle dovute al Covid, per poi imboccare una strada fatta di contraddittorietà: un allenatore leader, ma che affida il proprio potere decisionale sul mercato al proprio manager per “difendersi” dai suoi refrattari dirigenti. Un andamento ondivago di giocatori presi e poi lasciati, coccolati e poi indicati al pubblico ludibrio. Un decisionismo a giorni alterni, e quindi una presa sul gruppo squadra e sull’allenatore ancora tutti da decifrare.
È senz’altro un problema, visto che spetta alla dirigenza in quanto tale gestire tanto l’allenatore quanto la squadra, dare le linee guida sul lavoro da fare, monitorarne l’andamento, indicare pregi e deficienze, discutendo insieme sui rimedi. E se le capacità sono incerte, è ancor più complesso aver a che fare con un allenatore “santone”, che rischia di essere il riferimento di chi coglie le mancanze dei dirigenti, e un motivo di ulteriore rimprovero quando non è più “santone”, ma uno che vince e perde come gli altri.
Buon anno a tutti!
di Pierre Bayle
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Di
Redazione LaViola.it