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Articolo del tifoso: Lettera a Borja

Caro Borja,

per un atroce scherzo del destino sono nato e cresciuto nella stessa città in cui ti sei appena trasferito ma il mio cuore, calcisticamente parlando, sarà per sempre prigioniero della squadra da cui ti sei appena “liberato” (per usare parole tue). Il fato, nell’annullare la distanza geografica tra noi ha deciso – beffardo – di separare per sempre le nostre vite. Ecco perché ora che sei qui da qualche parte, a pochi passi da me, spero vivamente di non incontrarti mai.

Tu non hai ovviamente la minima idea di chi sia il pazzo che ti sta scrivendo. Io invece, come tutti gli innamorati, ricordo perfettamente la prima volta che ti vidi. Era una sera di febbraio del 2011 e per puro caso mi trovavo davanti alla tv a guardare distrattamente una gara di ritorno dei sedicesimi di finale di Europa League. Tu, ignaro della mia presenza, eri impegnato a incantare il Madrigal. Come sempre. Con una di quelle dimostrazioni di pacata ma inattaccabile superiorità a cui il popolo viola si sarebbe presto abituato con un misto di gioia e incredulità. Sì, perché quando fu annunciato il tuo arrivo a Firenze quelli che, come me, avevano già avuto la fortuna di vederti calcare un campo di calcio erano divisi tra due sentimenti contrastanti: da una parte chi era fermamente convinto che si trattasse di un caso di omonimia perché “figurarsi se uno così viene a Firenze”, dall’altra chi – e giuro, Borja: io non ero tra questi – per lo stesso motivo ti considerava un giocatore finito (“figurarsi: se uno così viene a Firenze vorrà dire che ormai farà fatica a camminare”). E invece…

E invece per colpa tua io sono ancora qui. Perché mi ero ripromesso che quel Fiorentina-Udinese, prima di campionato e tuo esordio in Italia, dovesse essere l’ultima sofferenza che mi sarei auto-inflitto: basta delusioni, basta pomeriggi col muso, basta beffe al 95° e basta unghie mangiate. Venivamo dall’ennesima stagione scivolata via in un tragicomico susseguirsi di mediocrità e infamia e sotto sotto speravo che quella potesse essere la goccia in grado di far traboccare il vaso: mi vergogno a dirlo ma quel pomeriggio – prima e unica volta in vent’anni – una parte di me sperò in una fragorosa sconfitta della mia squadra del cuore.

Poi, all’improvviso, ho visto un lampo balenare in mezzo al campo. Una, due, cinque, dieci volte. Ho visto la musa dell’eleganza (una mix tra Euterpe, Tersicore e Calliope) scendere e posarsi sul Franchi tanto da farmi

sobbalzare per un attimo sul posto: “È tornato Rui Costa?”. Ho visto tocchi, tagli, lanci, appoggi e geometrie messi in pratica con una naturalezza e una personalità a cui anni di mediocrità mi avevano ormai disabituato. Ho visto un leader. Nato. Di quei leader che non hanno bisogno di ringhiare, no. Di quei leader silenziosi. Quelli che parlano coi piedi e con lo sguardo. Sì, lo ammetto: quel pomeriggio di fine agosto, nella morsa di un’afa di cui solo Firenze può essere capace, ho perso la testa per te.

Ecco perché, come cinque anni fa sei stato la causa del mio riavvicinamento a uno sport che sa dare tanto ma che forse ancor di più sa togliere, ora non puoi che essere la ragione per cui dico finalmente e una volta per tutte basta. Ho reagito alla cessione di Batistuta e all’inferno della C2, alla farsa di Calciopoli e al furto di Monaco, agli 0-5 in casa con la Juve e ai 6-0 a San Siro col Milan, ai rigori fischiati a Balotelli e alle lacrime di Pepito. Ma stavolta è troppo.

Non è questa la sede adatta per criticare scelte societarie; queste righe devono rimanere quello che sono: una lettera d’amore. Un amore che credevo corrisposto. Del fatto che non lo sia stato (o almeno non fino in fondo), però, non posso farti una colpa: hai significato troppo per me. Per questo non riuscirò mai a serbare rancore nei tuoi confronti. Nemmeno quando ti vedrò con quella maglia simbolo del Male, nemmeno quando ti vedrò sorridere coi tuoi nuovi compagni, nemmeno quando – Dio ce ne scampi – dovessi segnarci un goal. Ci credevo, non lo nego: sarebbe ipocrita farlo. Ci credevo che saresti potuto diventare la nostra bandiera a vita. Ce l’hai fatto sperare tu stesso. Cosa sia successo poi non lo so e non lo voglio sapere: in una lettera d’amore non c’è spazio per recriminazioni e rimpianti.

Calcisticamente non posso augurarti il meglio, non ci riesco: troppo è l’astio che mi lega alla tua nuova squadra. Spero però che, se mai leggerai queste righe, possa farti piacere sapere che – al contrario di molti – non ti auguro nemmeno il peggio: diciamo che sospenderò il giudizio. Umanamente, ti auguro semplicemente di restare la persona meravigliosa che sono sicuro tu sia.

Nella mia mente, comunque, finché sarò vivo resterai sempre sotto la Fiesole a fare l’inchino.

Adiós Borja,

Un tifoso distrutto

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