Il seguente articolo, pubblicato originariamente nel maggio del 2004, ci è stato inviato da un amico di Gianni Conti in suo ricordo. Da poco scomparso dopo una breve malattia, Gianni è stato docente di lettere all’Istituto Gramsci-Keynes di Prato, autore di saggi e romanzi, ma soprattutto grande tifoso della Fiorentina.
Nel mondo di oggi, un mondo deprimente, sconvolto da una generale crisi di valori, si assiste sempre di più ad una fuga nel privato dove ognuno coltiva le proprie illusioni con lo sguardo rivolto al passato. Sono un amante del calcio e un tifoso della Fiorentina.
E il mio sguardo ripercorre immagini indelebili di un tempo recente dove un uomo, con le sue imprese sportive, mi aiutava a sentirmi meno solo, meno vulnerabile.
Quell’uomo, quell’atleta, si chiamava e si chiama Omar Gabriel Batistuta. È lui il mio mito, la mia difesa contro le frustrazioni e il disagio. Ne ho avuto la certezza quando ci siamo incontrati, a distanza di anni, nello stadio di sempre, nel tempio dei nostri ricordi. Eravamo di nuovo vicini, separati solo da un centinaio di metri e da migliaia di teste che ondeggiavano commosse e incredule. Pure io lo ero. Non volevo credere che i miei occhi si fossero ricoperti di lacrime. Lui mi aveva tradito come il più vile degli amanti, rinunciando alla mia passione incondizionata che durava da dieci lunghi anni. Se ne era andato senza una parola, senza una riga di scusa, senza una promessa. Abbandonava la mia squadra del cuore sull’orlo di un baratro nel quale sarebbe poi precipitata. Non potevo in alcun modo perdonare la sua ricerca di gloria in un’ altra città, in un’altra squadra. Lo aveva fatto per il denaro! Ne eravamo tutti convinti, io per primo.
Ed era giusto che la statua che i tifosi di Firenze avevano eretto per il loro idolo, fosse distrutta fino a diventare sabbia del deserto. Era un modo per tenere lontani i ricordi, per scongiurare il rimpianto. Cercai di esorcizzare quei momenti ricorrendo ad un rito tribale. Bruciai quella maglia col numero nove e ne affidai la cenere al vento. E continuai a tifare per la mia squadra mantenendo lo stesso posto di prima: fila 6, numero 26. Ad ogni goal della mia squadra, saltavo e abbracciavo chi mi stava vicino, ma le emozioni non erano più le stesse. Tentavo invano di mascherare a me stesso quello che accadeva in maniera evidente. Un uomo, per quanto affascinante e misterioso, può essere dimenticato, persino le imprese del più grande centravanti del mondo possono cadere nell’oblio, ma quello che non potrà mai essere cancellato, né tantomeno rimosso, è l’intensità delle mie emozioni. Talvolta le lasciavo affluire e scorrevano come un fiume. Si identificavano col suo volto, coi suoi gesti atletici, coi suoi goal più entusiasmanti, coi suoi abituali nobili e irridenti per festeggiare. E lui mi trascinava al Nou Camp di Barcellona di fronte alla sua richiesta di silenzio, a Wembley dove il pallone era diventato un missile invisibile, a San Siro dove aveva trafitto due volte la più forte difesa del mondo, a Lisbona dove Preudhomme, uno dei portieri simbolo del calcio, si era inchinato davanti ad un magistrale colpo di biliardo, al Comunale di Firenze con un intero stadio ammutolito nel vedere Batistuta accasciarsi al suolo mentre si era oramai involato, con la sua corsa prepotente, difronte al portiere del Milan. L’infortunio del mio mito impedì alla Fiorentina di vincere lo scudetto. Ne sono certo!
In quella sera di fine giugno, mentre mi asciugavo le lacrime dagli occhi, cercando di non farmi vedere, quelle scene balenavano davanti e si ripetevano come una danza frenetica. Ma dopo lo smarrimento di un attimo, riuscii ad eliminare la vergogna e mi unii all’ovazione di tutto lo stadio.
Il nostro eroe era tornato a farci visita, e quel saluto, così naturale e diretto, mentre si avviava zoppicando verso il centro del campo, ci coinvolse appassionatamente. Era come se un semplice gesto della mano fosse sufficiente a guarire ferite di anni, come se Gabriel Batistuta fosse diventato un angelo salvifico, se non addirittura un re taumaturgo.
Da allora sono arrivate sue promesse, altri attestati di amore per la città di Firenze. Ha acquistato una casa sulle colline e ha detto di non aver mai provato nostalgia per Firenze perché lui in realtà da Firenze non se ne era mai andato. Ha detto anche che il suo futuro sarà qui, nella mia città.
Non so se riesco a perdonarlo completamente, ma so anche che si tratta di un uomo permaloso e ambizioso, quanto arguto e sincero. Il mio mito tornerà e, forse, indosserà ancora la maglia viola col numero nove o, comunque, si siederà tra di noi risvegliando emozioni mai sopite. È ormai chiaro quello che il campione argentino rappresenta per me.
In un calcio malato, da un punto di vista morale ed economico, nel corpo di una città dove pulsa inarrestabile la passione per la propria squadra, una passione condivisa negli ultimi tempi anche da Adriano Sofri, perché la Fiorentina è il simbolo di una caduta agli Inferi con una risalita piena di onore, Batistuta, con la sua espressione disincantata, coi suoi gesti da leone ferito, mi consente di illudermi ancora. Di sperare che da una terra lontana giunga un suo erede, capace di infiammare gli animi con le sue gesta sportive, un atleta su cui poter riversare i miei sogni.
In ogni caso non potrò mai dimenticare, mio caro Omar, il tuo piglio fiero quando sostavi in posa di fronte ad una bandierina. Ogni mito in fondo merita una posa eterna. Ed io è cosi che voglio ricordarti.
di Gianni Conti
Di
Redazione LaViola.it