Le parole dell’Unico Dieci: “Il mio cuore si fermò, mi salvarono la vita. Agnelli mi disse che fui l’unico a rifiutare la Juve”
Giancarlo Antognoni esibiva nel suo gioco un’arte rotonda. La pulizia del gesto tecnico suggeriva che l’esercizio fisico altro non è che l’espressione più virtuosa di ciò che siamo. E Antognoni è stato il calciatore più elegante della sua generazione. Nel riguardare vecchi filmati degli anni 70 e 80, porgendo l’orecchio si riesce persino a sentire il suono del piede che impatta il pallone. Sonata al chiaro di luna, per il ragazzo che – così dicevano – giocava guardando le stelle. Ma poiché l’arte che si stempera nel dolore è sempre autobiografica, alle calcagna di Antonio – così lo chiamano i vecchi compagni – c’è stato un destino ghignante, che l’ha portato sul ciglio della tragedia – Antognoni ha rischiato di morire in campo, il suo cuore aveva smesso di battere – l’ha privato di una finale della Coppa del Mondo e di uno scudetto, il rimpianto più grande. Così La Gazzetta dello Sport inizia la lunga intervista con l’Unico Dieci viola, oggi tornato in Nazionale.
Nei suoi 15 anni in viola non si è limitato a giocare con la Fiorentina: è stato la Fiorentina. Ancora oggi rimane “Unico 10”, la bandiera, il totem. «Quello che io provo per Firenze è qualcosa di speciale. E l’amore che Firenze mi ha regalato non si può spiegare. Ne sono orgoglioso, ma so che è anche una responsabilità».
Quale è stata la sua partita perfetta con la Fiorentina? «Fiorentina-Roma 3-1, aprile 1980. Due gol miei su punizione, un autogol di Santarini provocato da un mio tiro: quella domenica mi riusciva tutto».
Antognoni campione del mondo, ma la sfortuna le tolse il privilegio di giocare la finale. «Mi infortunai in semifinale contro la Polonia. Il fatto è che volevo segnare anch’io. Qualche giorno prima, al Sarrià contro il Brasile, mi era stato annullato un gol per fuorigioco. Il gol era regolare, me l’ha confidato di recente il presidente della Fifa, Infantino, e l’arbitro di quella partita, Klein. Saperlo con certezza è stato pure peggio…».
Il calcio le ha dato tanto, ma le ha anche tolto. «Mi sono infortunato due volte in maniera grave. Nel febbraio del 1984, tibia e perone: rimasi fuori più di un anno e mezzo e quello stop incise sul mio finale di carriera. E prima nel novembre del 1981, in uno scontro con Martina, il portiere del Genoa. Svenni, mi si fermò il cuore, fu decisivo l’intervento del massaggiatore, che mi salvò la vita. Venni operato alla testa, rimasi fuori quattro mesi. E quell’anno perdemmo lo scudetto. Non voglio essere presuntuoso, perché venni sostituito in maniera egregia da Miani, ma saltai praticamente metà campionato e forse con me in campo qualche punto in più l’avremmo fatto. E avremmo vinto lo scudetto. Invece fu la Juve a prenderselo all’ultima giornata».
E alla Juventus lei è stato vicino. «Sì, nel 1978, dopo il Mondiale in Argentina. La Juve fece un’offerta ufficiale, valutai pro e contro e alla fine non accettai. È stata una mia scelta, non ho rimpianti. Anni dopo, al Mondiale di Spagna, l’Avvocato Agnelli, che mi stimava molto, mi incrociò nell’hotel di Madrid dove eravamo in ritiro e mi disse: “Antognoni, lo sa che lei è stato l’unico a rifiutare la Juventus?”».
E Antognoni oggi si rivede in qualcuno? «In qualche gesto di Calhanoglu, dribbling stretto e tiro potente. Ma la verità è che i 10 com’ero io non li vogliono più. Io facevo il 10 e anche la mezzala. Oggi gli allenatori mi farebbero giocare esterno, oppure dietro la punta nel 4-2-3-1».

Di
Redazione LaViola.it