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Piccini: “Al Betis sono stato poco professionale. All’Atalanta stavo rischiando la depressione”

Le dichiarazioni dell’ex terzino viola sulle sue esperienze tra Spagna e Serie A

L’ex Fiorentina, Cristiano Piccini si è raccontato al portale spagnolo AS: “Vita da ex calciatore? Sta andando benissimo. Ovviamente, essere un calciatore è molto bello, ma soprattutto negli ultimi anni significava anche vivere lontano dalla mia famiglia, e questo era diventato un peso per me. Quindi, ora mi godo la mia famiglia e un po’ più di libertà, il che significa non dover andare ad allenarmi tutti i giorni, non dover mangiare bene e non godermi molte cose”.

FIORENTINA. “Soprattutto in Italia, è difficile per un giovane giocatore affermarsi in una squadra importante come la Fiorentina. Di solito, uscivi dalla Primavera, che è come la seconda squadra. Se facevi bene e progredivi come me, giocavi in ​​Serie C, la terza divisione italiana. L’anno successivo, ero sempre in prestito in Serie B, e l’anno dopo, in prestito in Serie A, in una squadra più piccola… E poi è arrivata l’offerta del Betis, e la mia decisione è stata di provare quell’esperienza all’estero, dopo essere rimasto un po’ deluso dal calcio in Italia dopo tanti prestiti”. 

BETIS. “Ero molto emozionato all’idea di giocare per una squadra così importante. Probabilmente non ero preparato perché ero giovane e venivo dall’ lItalia con il mio stile di vita. Non avendo mai giocato in squadre con un seguito così grande e nessuno mi conosceva veramente, il mio stile di vita era molto più quello di un giovane: uscire, godersi la vita, la vita notturna. Mi sono trovato in una città così sorprendente sotto questo aspetto, e all’inizio non sapevo come gestirla. Ho avuto molti infortuni muscolari; non ero un professionista, non ho problemi ad ammetterlo. E poi, dopo il primo anno in Seconda Divisione, siamo stati promossi, ma non ho giocato molte partite. L’anno dopo, il Betis mi ha acquistato perché ero in prestito il primo anno. Mi ero già ambientato, avevo conosciuto la città, avevo capito che anche il mio corpo stava cambiando. A 22 anni, non avevo più la resistenza per non dormire così tanto, per uscire, per bere… che avevo a 18 anni, quando pensavo di essere un Ironman e di poter fare qualsiasi cosa. Arrivavo agli allenamenti della Carrarese subito dopo aver dormito in macchina, capisci? Due ore e andavo ad allenarmi. Nel mio secondo anno al Betis, ho giocato 18 partite consecutive a un buon livello, e la cosa peggiore è stata che nella prima partita della seconda metà della stagione mi sono rotto il legamento crociato. E ovviamente, i miei progressi si sono fermati lì. Mi sono operato, ho fatto riabilitazione e in sei mesi, cioè a partire dalla stagione successiva, ero pronto a giocare. Ho fatto una buona stagione lì, e poi lo Sporting Lisbona mi ha ingaggiato”. 

ATALANTA. “A Bergamo ero ancora mezzo infortunato. Sono stato stupido perché mi sono lasciato convincere, ma non ero pronto a cambiare club, ovviamente. Avevo ancora molta strada da fare per stare bene. Non riuscivo a saltare con la gamba destra. Hanno deciso di ingaggiarmi dandomi un mese di tempo per stare bene e magari tornare in Nazionale. Ma in realtà hanno affrettato i tempi quando ancora non ero pronto. Ho passato mesi a svegliarmi alle sei di mattina, andare in palestra, tornare a casa, fare colazione, andare al centro sportivo, fare trattamenti, allenarmi, mangiare, tornare a casa con il mio fisioterapista. Vivevo solo per riprendermi. Poi, ovviamente, vedi che non c’è via d’uscita, che non si migliora, e poi ovviamente vai in una nuova squadra dove ti dicono certe cose e poi non le soddisfano e ti ritrovi così solo, anche se era il mio Paese, anche se avevo la mia famiglia più vicina. E’ stata una decisione sbagliata andare lì”. 

IL RITORNO AL VALENCIA. “A gennaio, nel mercato invernale, mi avevano detto al Valencia che non potevano pagarmi lo stipendio se fossi tornato. Ma ho detto loro che dei soldi non mi importava, perché avrei rischiato la depressione all’Atalanta. Per sei mesi non sono stato pagato, ma in quel momento ho preferito andare in un posto dove mi amavano, dove si prendevano cura di me e dove sapevano quello che avevo perché l’hanno vissuto con me e dove ho davvero fatto un piano per riprendermi fisicamente”.

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