
Nella settimana di avvicinamento alla delicata sfida contro l’Inter ci si è concentrati troppo su ciò che potrebbe succedere in caso di sconfitta. Archiviando la partita più bella prima ancora di giocarla
C’è una grande partita. E c’è una squadra che sembra tornata piccola, ma ci si può sempre ribellare al destino.
Partiamo da questo: un tempo, le grandi sfide contro le avversarie con cui vorremmo competere assorbivano le emozioni, le parole, le speranze, le scommesse di tutta una settimana. Adesso il presente fa da sfondo al futuro, il presente è sempre poco, umiliato dalla rabbia, sovrastato dall’eterno calciomercato.
Ce la faremo? Perché no, se contro l’Inter ci è già riuscito 29 volte (e altre 3 in Coppa Italia). Ma loro sono forti, loro sono primi. E noi abbiamo appena perso con due neopromosse come Verona e Lecce, abbiamo fatto sembrare bello il Toro. È vero, anzi di più: è reale, la partita sembra spesso caricata di problemi superiori alla Fiorentina, solo la disperazione ha confuso un po’ l’analisi delle ultime due sconfitte.
Come si fa? Però anche quella volta erano fortissimi, marciavano ruminando record, eppure fini 4-3. D’accordo: c’era Baggio, c’era Borgonovo, c’era Eriksson. Lo sconforto è una calamita potente, bisogna avere forza di volontà per ribellarsi. Le polemiche sono scorciatoie di senso e dunque ci vengono in soccorso, in questi tempi frettolosi e intessuti di nevrotiche nullerie. Non so cosa serva per tornare a battere strade più speranzose, o almeno curiose.
Un tempo la Grande Partita era argomento sufficiente per ritrovare e condividere passioni. Era una sospensione della vita: non c’era prima, non c’era dopo. C’era l’evento. Quante sono le stagioni in cui ci siamo rifugiati nell’arrivo della Juventus al Franchi?
I superbi confutavano questo sentimento con la debolezza, o peggio ancora il provincialismo: ridurre una stagione a una partita. I più seri capivano che ci sono momenti e avversari che riescono a ricomporre un vetro rotto, che sono il sottile filo rosso delle anime perse, dei soldatini in rotta nella guerra perduta. Ricordiamo ancora quelle vittorie, dunque era fondamentali, hanno concimato la nostra memoria collettiva.
Invece stiamo parlando di chi sostituirà Montella dopo la prossima ovvia sconfitta, di quanto è seria la minaccia della Serie B, alla luce non solo della sconfitta con l’Inter, ma anche del rovescio prossimo contro la Roma. Se l’eventuale ritorno di Prandelli non sia solo la certificazione di un mondo recente che quando si ripete distrugge i migliori ricordi: insomma, abbiamo già esonerato anche il prossimo allenatore. Però a giugno magari arriva Spalletti (sempre che sia stata raggiunta la “miracolosa” salvezza). Insomma: tendiamo a fuggire in avanti e se proprio ci sfugge un occhio al campo è tutto per quello che non ci sarà, l’azzoppato Ribery (e già si dibatte se sia stato giusto investire su un 37enne: nemmeno il più genuino bagliore ci rischiara la vista, quando cala la notte).
Abbiamo già archiviato la partita più bella prima di giocarla. Contro i più forti (adesso, per la classifica) del campionato, in casa, nel nostro stadio: abbiamo sostituito la curiosità professionale, la passione, il tifo più tenace (ognuno per la sua parte) con la frustrazione, il fato, lo sfogo.
Fiorentina-Inter: in casa (ero bambino) mi parlavano di un gol di Brizi, che ci salvò dall’infamia pressoché sconosciuta della retrocessione (poi l’avremmo frequentata). Anche allora era una cosa disperata ma niente raggrumava le emozioni come una partita senza scampo. Poi l’Inter ci ha spesso ricordato che le cose andavano bene: e segnavano doppiette Bertoni, Baggio, Borgonovo, Chiesa padre, e anche Jovetic, Ljajic (“Il pallone è quello giallo”, cantava lo stadio, rapito nei sensi da un allenatore che aveva portato stile, piacere, sostanza: si chiamava Montella). Perfino Babacar fece la sua doppietta, Batistuta invece ne fece 3 (anche Kalinic, a San Siro).
La curva dei ricordi fa prendere patetiche sbandate, oppure riallinea il cuore e la testa su questo desiderio di esserci, essere in campo ed essere forti, anche solo per una notte. Il desiderio è l’emozione del presente, scrisse Giorgio Gaber. È un’emozione necessaria e pura. Sto pensando a come Chiesa figlio possa portare fuori zona Godin, che sta soffrendo gli ingaggi lunghi, lontani dall’area. Come Dalbert e Lirola possano vincere i loro duelli, contro i più fragili fra cotanti avversari. E come Castrovilli, di ritmo superiore sia a Borja che a questo Vecino spompato da troppe esibizioni ravvicinate, debba tornare vicino all’area (che delitto e che spreco quegli slalom magnifici, infiniti, inutili di Torino). L’Inter è forte – tutto quello che maneggia Conte diventa forte – e quando parte diventa anche bella, limpida, produce occasioni da molto lontano, e una volta persi Barella e Sensi (non riuscendo più a collegare il centrocampo agli attaccanti), ha mutato i propri bisogni: fanno loro, lassù, da soli, 1 più 1 fa almeno 3, nell’attacco dell’Inter, e poi Lukaku insiste verso il centro destra, e Lautaro taglia sodo sul centro sinistra, incrociando Caceres e Milenkovic in senso opposto alle possibili adiacenze fisiche. Però c’è Pezzella, vivaddio, uno sa tenerli insieme, anche noi possiamo elevare il totale oltre la somma dei giocatori del reparto.
Ci penso, e mi sembra già cominciata e forse siamo in vantaggio, ha segnato il ragazzone.
Il tifoso smonta e rimonta i pezzi come vuole, e spesso vuole illudersi. Ma siamo avvitati dentro una profezia di sventura: anche a non crederci, le divinazioni si portano dietro sempre qualche condizionamento. In campo, tolgono coraggio, tarlato dal fato. E invece il coraggio serve (lo abbiamo già invocato). Sono partite significative, difficili e bellissime, troppe cose vogliamo superare senza averle nemmeno capite, sui limiti individuali e di squadra, di preparazione tattica e fisica. Le ultime sconfitte sono state troppo povere (e forse è questo il loro significato più insolente): non abbiamo scoperto niente, dei migliori sapevamo più e meglio prima, dei nuovi continuiamo a cercare video su Youtube, per non voler credere agli occhi, dei giovani vediamo le rughe o l’acne: non l’esuberanza né il vigore. Degli adulti vediamo gli acciacchi e il logorio, non certo l’esperienza e la gestione. L’allenatore e il direttore sportivo sono raccontati come la parodia di quelli che erano lì, 6 anni fa, quando il pallone era quello giallo.
Non mancherà il tempo dei giudizi universali e particolari, nessuno ci impedirà di puntare il dito della ragione contro un qualunque colpevole, per pronunciare la frase più mitica dei tempi moderni: te l’avevo detto.
Io non vorrei dirlo, non ancora. Vorrei solo sognare in pace.

Di
Marco Bucciantini