
Niente paragoni tecnici. No, non è il caso. Qui c’è qualcosa, però: una luce, un sorriso, l’occhio furbo tra il dolce e lo spietato. C’è la personalità, la famosa “garra”, cioè quella cosa che o ce l’hai o scordatela. Giovanni Simeone somiglia fisicamente al padre. Il Cholo e il Cholito, gente cazzuta, si direbbe al bar. Diego Pablo nella Fiorentina non ha mai giocato, ma se lo avesse fatto di sicuro sarebbe diventato un idolo. In ogni caso tanto rispetto, perché qui gli argentini hanno casa nel cuore della gente. Quando il nuovo numero nove della Fiorentina è arrivato a Firenze qualcosa si è smosso nel silenzio di un Ferragosto bollente, del sonnacchioso umore del tifoso in attesa. Perché quel numero mescola ricordi e colori: i gol, il viola, la mitraglia e il bianco, altri gol e l’azzurro . Non è un confronto. È qualcosa che però somiglia a un risveglio. Perché quello che correva alla bandierina era un ragazzo esploso in Coppa America.
Era così lontano e sconosciuto, in un mondo in cui la globalizzazione del tempo reale era ancora under costruction. Qualcuno lo paragonò a Dertycia, come per sfotterlo. Perchè a Firenze siamo così. E lui mesi e mesi ad allenarsi da solo con il pallone per affinare dei piedi raffinati zero. Ricordi, del giovane Batigol, uno che sfondava la reti dopo aver sfondato a stretto giro i dubbi del tifoso dubbioso. Ma quel ricordo ha insegnato qualcosa. Soprattutto ha ribadito un concetto: l’Argentina per noi è un luogo di affetti profondi: il cuore duro, il resto dolcissimo. Bertoni fu il primo. Ed era pigramente fantastico, nel suo calcio in equilibrio tra il genio e l’ombra della tribuna, dove la leggenda (e non solo quella) lo narrava riposare quando la palla viaggiava altrove. Meraviglioso Daniel. Anzi, meravigliosi Daniel. Come il Caudillo, il condottiero Passarella. Hombre vertical, e anche di più. Uno che per difendere il suo allenatore stava per menare un tifoso. Che gli vuoi dire al Caudillo, personaggio adorato per ciò che metteva sul campo.
E Ramon Diaz il puntero triste? Sì, è vero l’Argentina, al Franchi, è fatta anche di storie molto meno romanzesche. Alcune impercettibili, altre girate al contrario, come quella del povero Dertycia, talento mancato ma vendicato poi da Gabriele Omar, quello che trasformò se stesso in una statua sotto la Fiesole. E ogni volta che lui passa di qui il cuore batte forte ancora, perchè capita di rifugiarsi nel passato per ricaricare le batterie dei sentimenti. Anche di questi tempi, dove si lavora per ricostruire. E allora eccolo lì, con tutto il suo entusiasmo. Un altro figlio d’arte, pronto a darsi polmoni, muscoli e anima alla sua nuova missione. E questo già piace ai tifosi, perchè è il darsi completamente che fa la differenza. È non indietreggiare mai, arrivare anche a boccheggiare nei momenti difficili, ma esserci, trasmettere ciò che Firenze vuole: l’identità di chi desidera essere diverso, di chi vuole rompere le scatole ai ricchi e riccastri, di chi ti frega quando meno te l’aspetti. E il giovane Simeone sa cosa Firenze sogna, perché ha capito il calcio italiano e le sue regole emozionali, perché è un ragazzo vero e, soprattutto, è uno che ha segnato due gol alla Juventus, roba che nel mondo (e soprattutto da queste parti), non passa inosservata. Anche il padre amava segnare ai bianconeri, c’era riuscito anche con la maglia del Pisa. Altri tempi, già. Fatto sta che il ragazzo ha scosso qualcosa. Ci ha costretto a ricordare, e anche a scherzarci su. Batigol, Bertoni, Passarella. E poi anche Gonzalo, che non era El Caudillo ma era tosto comunque. Per questo anche l’arrivo di Pezzella, altro argentino, ti fa stare più tranquillo. E non pesano niente le battute sulle parodie alla Tanque Silva o alla Castillo. Ogni regola ha le sue eccezioni. Noi non sappiamo dove arriverà il Cholito, ma sappiamo da dove viene e che maglia indosserà. E questo, a pochi giorni dal via, può bastare per far battere il cuore a una città.

Di
Redazione LaViola.it